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Giornata Mondiale della Cravatta: un accessorio, una narrazione. Massimiliano Giornetti racconta l’identità del nodo più iconico di sempre

Giornata Mondiale della Cravatta: un accessorio, una narrazione. Massimiliano Giornetti racconta l’identità del nodo più iconico di sempre

Un biglietto da visita in cui contano il colore, il nodo, la fantasia. Un segno distintivo che diventa espressione identitaria, capace di riflettere orientamenti sociali e culturali. Basta sollevare il colletto della camicia, avvolgere il tessuto con un gesto preciso, e si sigilla una narrazione: quella di un contesto, di un’epoca, perfino di una classe sociale. Per Massimiliano Giornetti, direttore di Polimoda (Firenze), la cravatta è molto più di un semplice accessorio. È uno specchio attraverso cui osservare una società in trasformazione, che si racconta anche attraverso le scelte compiute davanti all’armadio. Con sguardo acuto e sensibilità stilistica, Giornetti riesce a leggere, dietro ogni cravatta, i codici di un tempo e i desideri di chi lo abita. Un esercizio di stile, ma soprattutto di interpretazione culturale.

1. La cravatta è ancora un simbolo universale di autorevolezza, eleganza e potere?

“Negli ultimi anni, la cravatta ha vissuto momenti tormentati. Il periodo del Covid ha legittimato una nuova forma di rilassatezza, in forte contrasto con l’emblema di un’eleganza composta e formale. Tuttavia, la cravatta non ha perso la sua essenza comunicativa: resta un biglietto da visita che dichiara un’identità.
Penso, ad esempio, all’idea dell’uniforme nel mondo anglosassone, dove i colori delle cravatte sono portatori di un immaginario profondamente british. Anche i nodi possono comunicare molto: nella politica italiana degli anni ’90, le cravatte napoletane di Marinella definivano una gerarchia ben chiara, con il tipico nodo a sette veli. Lo stesso Donald Trump indossa un rosso molto acceso che diventa una dichiarazione d’intenti — confermata anche dopo le prime elezioni. Non so se si tratti di una scelta scaramantica o di altra natura, ma sicuramente non è casuale. Lo stesso vale per l’azzurro di Silvio Berlusconi o le cravatte rosa di Gianfranco Fini, scelte che rappresentano un segno di riconoscimento, sia per l’elettore sia per l’identità del partito politico.
Oggi la cravatta rappresenta ancora un simbolo, forse non più di potere, ma certamente di autorevolezza. Lo si nota anche nelle ultime collezioni maschili, sia a Milano che a Parigi: sulle passerelle si è registrato un ritorno della cravatta, come nel caso di Dior, sotto la nuova direzione creativa di JW Anderson”.



2. Dunque si può parlare di un ritorno della cravatta?


“Sì, si percepisce un sapore di riscoperta, soprattutto da parte delle nuove generazioni. Nel mio lavoro quotidiano alla guida di Polimoda, mi confronto con una generazione molto giovane che arriva da un’epoca — quella del post-Covid — in cui la cravatta era completamente scomparsa anche dai contesti più formali.
È interessante notare come, invece, oggi sulle passerelle, da Dior a Valentino, la cravatta stia tornando. Non necessariamente con una narrazione politica o di “power dressing”, come accadeva negli anni ’80 e ’90 (basti pensare al guardaroba iconico di “American Gigolo” disegnato da Giorgio Armani, o a “The Wolf of Wall Street”).
Oggi, piuttosto, si assiste a un ritorno a una forma di eleganza più composta. Dopo anni di “quiet luxury” e dello stile athleisure, che ha introdotto l’abbigliamento sportivo anche nei contesti più formali, la moda sembra voler recuperare un certo classicismo. Si torna a parlare di giacca, cappotto, capospalla, e, con essi, della cravatta. I designer riscoprono questo elemento non come simbolo di potere, ma come espressione di un’eleganza più sobria e misurata”.



3. Quanta versatilità ha la cravatta?


“La cravatta ha bisogno di rigore e formalità. La sua massima espressione è legata al mondo del tailoring. In fondo, rappresenta una sorta di “divisa”. Non a caso, nasce come elemento militare già durante la Guerra dei Trent’anni; anche se le sue origini risalgono persino ai legionari romani, che usavano pezzi di stoffa per proteggere il collo.
Nel tempo, si è arricchita diventando anche elemento decorativo, come nelle versioni in pizzo del XVIII secolo. Ma la sua funzione rimane quella di connotare un’idea precisa di formalità. Dopo anni in cui anche gli ambienti più istituzionali si sono allontanati dalla cravatta (il cosiddetto “Friday look”, che autorizzava un abbigliamento più rilassato), oggi si torna a riscoprire la giacca, il cappotto… e, naturalmente, la cravatta.
Per la Gen Z, che spesso non ha mai avuto la cravatta nel proprio guardaroba, questo rappresenta quasi una scoperta. A meno che non abbiano indossato un’uniforme scolastica, è qualcosa di inedito per molti di loro”.



4. Che ruolo ha la cravatta nel guardaroba femminile?


“Nel passato, la cravatta è stata anche un accessorio femminile, seppur molto diverso da quello maschile. Nei primi decenni del Novecento, con l’emancipazione della donna e la rivoluzione del guardaroba, le forme diventano più fluide, leggere, e la cravatta diventa quasi un ornamento, più simile a un fiocco o a un papillon.
Oggi, invece, la associamo quasi esclusivamente al mondo maschile, in gran parte per via del significato politico e sociale che ha assunto nel tempo. Brand come Hermès, leader indiscussi nella cravatteria, offrono cravatte quasi esclusivamente nella linea uomo.
C’è stato uno spartiacque. Quando la cravatta ha assunto un valore simbolico fortemente legato al potere (che sia politico, economico, sociale) è diventata un accessorio prettamente maschile. Da una parte i colletti bianchi, simbolo delle classi dirigenti; dall’altra i blue collar, il lavoro operaio.
La donna, nel frattempo, ha evoluto il proprio stile verso forme più fluide, libere e, in molti casi, più sinuose. La cravatta ha perso così quel ruolo di decorazione femminile che aveva avuto in passato”.



5. Quali sono le prospettive future per l’uso e il ruolo della cravatta?


“Alla luce del mio osservatorio privilegiato su oltre 2.200 studenti provenienti da 74 paesi diversi, vedo una generazione molto difficile da incasellare in regole rigide. Quando parlo di “fluidità”, non intendo solo in senso identitario, ma anche nei comportamenti e nei consumi: ciò che oggi funziona, domani potrebbe non funzionare più.
Per questo, credo che la cravatta continuerà a esistere, ma resterà legata soprattutto a contesti specifici: eventi formali, cerimonie, ambienti istituzionali. Pensiamo ad esempio al Parlamento, dove ancora oggi l’accesso è regolamentato dall’uso della cravatta. Allo stesso tempo, tanti hanno utilizzato la cravatta per lanciare messaggi politici, anche provocatori, giocando sui colori o sulla scelta di modelli volutamente “improponibili”.
Penso però che per le nuove generazioni la cravatta sarà un oggetto da riscoprire più per piacere personale che per il suo significato simbolico. Sarà magari presa dal guardaroba del padre e reinterpretata in chiave anticonformista. Ma è improbabile che venga percepita come simbolo di potere o status sociale.
Questa generazione è meno legata ai simboli, inclusi i loghi. Utilizza gli oggetti per ciò che sono, per come si sentono addosso, non per ciò che rappresentano. E la cravatta, in questo senso, continuerà a esistere, ma svuotata del peso simbolico che ha avuto nel passato. Sarà semplicemente ciò che è: un accessorio. E forse, proprio per questo, più libero”.

 

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